MARTA DASSÙ | |
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L’unico referendum su cui andrei a votare volentieri è un referendum che abolisse l’attuale legge elettorale. È una legge elettorale del genere, infatti, che consente di raccontarci la solita storia di comodo: siccome il governo uscito dalle urne in modo democratico non rappresenta in ogni caso la volontà popolare, i referendum la devono ripristinare. Sulle materie più disparate: dalla distribuzione dell’acqua all’energia nucleare.
In realtà, questo mio referendum preferito c’è già stato due anni fa; ma è fallito per mancanza di quorum. E quindi continuiamo in questo modo. Con una legge elettorale che funziona da alibi per passare alle vie referendarie. Quando la democrazia rappresentativa fallisce, subentra la democrazia plebiscitaria. Cosa che non certifica affatto lo stato di salute dell’Italia (è il popolo che finalmente decide, dicono i referendari) ma ne certifica la patologia: quando il popolo decide sulle politiche, la politica non funziona. Ci sono cose che non succedono a caso. Non è un caso che la Costituzione americana non preveda referendum federali. E quindi escluda dai referendum la politica estera e le tasse del governo centrale, come del resto la Costituzione italiana. È evidente, infatti, che su questioni cruciali per la solidità di uno Stato (la ratifica dei trattati internazionali da cui dipende in parte la nostra sicurezza, la tutela del patto fiscale che sta alla base delle democrazie moderne), plebisciti popolari equivarrebbero a un suicidio. Insomma: i referendum sul nucleare sono una prassi ricorrente in Italia. Non lo sono in America o nel resto d’Europa, con la parziale eccezione della Svizzera. In Francia, come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna (e come in Finlandia, in Giappone stesso, etc) sono stati i governi, dopo Fukushima, a prendere la decisione opposta a quella tedesca: confermare la scelta nucleare, ma puntando a rafforzare la sicurezza. Il che intanto dimostra una cosa: l’evidenza scientifica sui rischi nucleari non è tale da giustificare decisioni univoche. Mentre è scontato che, se chiamate a pronunciarsi direttamente sui «rischi», le società moderne, avverse al rischio, sceglieranno sempre di azzerarlo. Specie dopo un incidente nucleare. Così facendo, tuttavia, un Paese non compirà necessariamente la scelta più razionale. Anche perché in campo energetico non esistono scelte «a rischio zero»: almeno per tutta una fase di transizione – i molti decenni che ci separano dalla prevalenza delle energie rinnovabili – diminuire la quota prodotta da energia nucleare significa fare leva sui combustili fossili. Aumentando così un altro rischio, quello ambientale. L’ultimo Rapporto dell’Agenzia internazionale dell’Energia prevede infatti, dopo Fukushima, l’Età d’oro del gas. I dubbi sul nucleare sono naturalmente legittimi; tanto più i dubbi sul modo in cui è stato concepito in Italia il rientro in una tecnologia da cui ci siamo auto-espulsi venticinque anni fa. Il problema, tuttavia, è che avremmo bisogno di fondare le decisioni sul futuro energetico del Paese non su riflessi emotivi ma su sensati trade off fra benefici e costi, fra vantaggi e rischi. Altrimenti, l’illusione della sicurezza assoluta tenderà a trasformarci, da società del rischio, in società della proibizione. O della rinuncia. Con effetti paralizzanti. Argomenti come questi non impediranno forse di votare. Right or wrong è il mio Paese, voterò anch’io. Nel clima che stiamo vivendo, le pulsioni dei referendari sono state «confiscate» dalla politica tradizionale: votare sul nucleare o sull’acqua è diventato un modo come un altro, dopo le elezioni amministrative, per regolare i conti a Roma. Quando i partiti al governo decidono di rinunciare a difendere le loro stesse politiche, dando libertà di coscienza sulla distribuzione dell’acqua, come se fosse l’eutanasia; e quando i partiti all’opposizione decidono di cavalcare i referendum, il sistema politico non fa più il suo dovere. L’ondata di politicizzazione è tale che perfino il mio referendum preferito rischierebbe di passare, questa volta. Peccato che si voti su altro, non sulla legge elettorale. |